Io soggetto a rischio, l’incontro con il coronavirus e la sanità fragile.

La stanza di Lina, il luogo dei ricordi e della cura. foto p. del rossi

Da ragazzo mi divertivo a fare ogni tanto la stessa domanda a bruciapelo agli amici: “ma tu ti accorgi che stai respirando?” Il loro sguardo incredulo si incrociava con la mia espressione beffarda di chi dietro ad una domanda apparentemente banale, nascondeva la conoscenza diretta di uno stato di salute comunemente definito a rischio.

In pratica quando stiamo bene, e qui trovo calzante più che mai il pensiero di E.M.Cioran: “rifiutiamo l’idea di fatalità, il fatto è che, del nostro corpo, che si fa sentire a malapena, praticamente non percepiamo l’esistenza” e quando veniamo colpiti dalle malattie esse equivalgono a delle sentenze. Un cammino difficile da spiegare, anche da chi, come me, con i problemi di salute ci ha fatto i conti dalla nascita e continua a farli. Però, nonostante la difficoltà, voglio provare comunque a descrivere quest’esperienza a partire dalla “fragilità”, con cui ho affrontato la vita e che nonostante la crescita personale che ne è derivata , sono continuamente preso dal dubbio che forse una vita con meno responsabilità nei miei confronti e con maggiori “divagazioni superficiali”, forse non mi sarebbe dispiaciuta. Tuttavia se questo deve essere il mio destino è esattamente il destino che voglio, una variante del detto del buon cristiano “abbraccia la tua croce e vai avanti“. Inutile dire che l’incontro con sua maestà il coronavirus me l’aspettavo, anche se quando accade ti prende sempre di sorpresa ed anche se i sintomi sono facilmente riconducibili al raffreddore, alla vecchia asma o qualcos’altro di “già avuto”, non passa molto tempo che ti rendi subito conto che le cose stanno diversamente e prima che non si creda, ti ritrovi nel pieno di una terapia fatta di antibiotici (si perchè ce ne vogliono due), ossigeno, EBPM e l’immancabile cortisone. Il sapore e l’olfatto, nel mio caso, non li ho mai persi, dettaglio che non è sfuggito ai tanti che mi conoscono e che a giusta ragione, mi facevano notare in quei giorni, che se nemmeno il covid 19 era riuscito a farmi perdere il gusto ed il piacere per la buona cucina avrei avuto di sicuro buone possibilità per sconfiggerlo.

Una condizione difficile da gestire a casa, tra ipossemia e febbre intermittente per 17 giorni, ma una scelta fatta anche in conseguenza delle allarmanti notizie della saturazione dei posti negli ospedali e le immagini delle lunghe file ai pronto soccorso con le bombole di ossigeno fuori le auto in una drammatica attesa del ricovero. Scene che non avremmo mai voluto vedere e che solo in parte sono conseguenza diretta del virus che rientra nei fenomeni naturali, in quanto la sua diffusione e soprattutto la gestione dell’emergenza, diventa un problema di carattere sociale. La riduzione di risorse umane ha riportato il numero complessivo di dipendenti del SSN in servizio nel 2017 (658.700) unità ad un livello inferiore a quello del 1997 ( 675.800 unità). Tale riduzione ha interessato i medici -6% tra il 2010 e il 2017, e -4% per il personale infermieristico, sempre nello stesso periodo, che già risultava inferiore alla media dell’UE ( 5,8 infermieri per 1.000 abitanti contro 8,5 dell’UE) ( Fonte: elaborazione su dati Inapp-Plus).

La fotografia di una situazione di tre anni fa, che con l’esplosione della pandemia ha mostrato tutta la sua drammaticità con la grande carenza di personale specializzato, il sottodimensionamento dei reparti di terapia intensiva e la scarsità di nuovi investimenti per la sanità pubblica.

A ciò va aggiunta la già difficile situazione della medicina territoriale, che ha cercato di reggere l’impatto con la pandemia, nonostante sia diventato il punto debole del sistema sanitario nazionale. A tal proposito ho trovato vergognose le critiche rivolte ai medici di medicina generale/di famiglia, lanciate proprio da alcuni vertici sanitari. Critiche che hanno trovato spazio all’interno di un’informazione che punta solo allo scoop e che finisce per colpire proprio coloro che sono quotidianamente a fianco dell’ammalato. Abbiamo sentito di medici di famiglia che non rispondono alle telefonate, che non vogliono praticare il tampone ai propri assistiti, si sono evidenziate le mele marce, per screditare un’intera categoria di professionisti, costretta a lavorare in studi che si trovano all’interno di civili abitazioni e inadeguati al trattamento di pazienti potenzialmente contagiosi. Eppure il ruolo di questi medici è stato determinante nella lotta alla pandemia ed io dal mio punto di “ricovero” in casa sono venuto a conoscenza di validi esempi di professionalità, disponibilità e nel senso più umano del termine di creatività. Purtroppo come recita un vecchio detto “i guai non vengono mai da soli, ma sempre accompagnati” e mi sono trovato, per problemi sorti all’ultimo momento, senza medico di famiglia. Fortunatamente mi è venuto incontro un altro detto popolare: “quando si chiude una porta si apre un portone” ed ecco sopraggiungere Pietro, san Piertro, soprannominato dagli amici per la sua grande cultura medica e disponibilità, medico di medicina d’urgenza di un ospedale di Napoli, che è riuscito a tirarmi fuori da un pericoloso e improvviso stato di aggravamento della malattia, poi comunque alla fine sono riuscito ad avere il mio nuovo medico di famiglia, la dottoressa Anna, e mi si è mostrato davanti un mondo, fatto di superlavoro e dedizione, che in parte già conoscevo, grazie alla mia lunga “esperienza” di paziente e che nell’era del coronavirus sta mostrando potenzialità che lasciano ben sperare per una futura medicina di prossimità.

Ho saputo infatti, di intere famiglie in terapia, colpite dal covid e di un corso accelerato in videoconferenza in cui l’unico componente sano, una ragazza adolescente, imparava attraverso le raccomandazioni del medico a fare le iniezioni intramuscolari agli altri componenti della famiglia tutti ammalati di covid 19. Io stesso ho ricevuto assistenza oltre che con telefonate, con risposte via chat anche alle 11 e 30 di notte. Ma la cosa che più mi ha colpito è stata la capacità da parte dei medici di famiglia, di confrontarsi continuamente tra loro sulle terapie da adottare volta per volta e le valutazioni dei casi in modalità collegiale, sfruttando le tecnologie digitali della comunicazione. Un bell’esempio di integrazione di saperi e di pratiche. Un apporto notevole a quello che sarà poi la valutazione complessiva che il medico farà sul paziente a partire dalla conoscenza diretta e dalla sua storia personale e non solo dal punto di vista sanitario. “Bisogna curare il malato e non la malattia” un’esclamazione fin troppo abusata, ma mai veramente esperita. Ogni volta che si esclama questa frase, qualcuno, sta morendo da qualche parte nella solitudine della sua sofferenza. Quello che dovrebbe essere l’incipit di un modello etico universale e che vive ormai solo nei cuori e nell’ispirazione dei “Don Chisciotte” contemporanei, è svuotato continuamente di significato dall’uso strumentale di una politica che ha ridotto all’osso le risorse economiche e umane della sanità pubblica, per foraggiare le “eccellenze” della sanità privata. In senso più ampio e generale si va nella direzione dei “modernizzatori che hanno divorato la modernità”, secondo Alain Touraine, “nel quadro della globalizzazione neo-liberista in cui una tecnocrazia i cui interessi sono quelli dei potentati economici si è sovrapposta ad una democrazia in crisi che si manifesta con disuguaglianze crescenti, con l’aumento della marginalizzazione e l’abbruttimento dei ceti popolari”. Tuttavia tra le macerie residuali della distruzione del sociale, c’è ancora la speranza di scorgere quei soggetti umani, in grado di svolgere i propri compiti lontano dal misero interesse individualistico e dalla frenesia della politica affaristica e questa pandemia pur avendo evidenziato in maniera drammatica i problemi della sanità pubblica, ci lascia intravedere, attraverso le esperenze di questi medici un possibile sviluppo della medicina territoriale che comunque richiede un’ inversione di tendenza, sulla distribuzione delle risorse economiche e nell’uso diffuso, democratico ed etico degli strumenti teorici, tecnici e metodologici che la modernità (strappata ai modernizzatori) ci mette a disposizione.

Penso che la tragedia umana provocata da questa pandemia, dovrebbe far riflettere e sopratutto modificare gli atteggiamenti di tutti e capire che non servono le esaltazioni individuali di alcuni personaggi pubblici in seguito a presunte vittorie “personali” sul virus. La spettacolarizzazione e l’esaltazione dell’individualismo è un chiaro segno del loro fallimento morale, davanti a chi soffre ed agli oltre 2 milioni di morti che questo virus ha causato nel mondo ed è ancora presente tra noi, pronto a cambiare volto e strategia.

La mia esperienza mi porta a ribadire che ho superato un’altra prova, con la speranza di essere, quanto prima, pronto ad affrontare le altre che sicuramente ci saranno, continuando a credere nella sanità pubblica e in una società equa e ispirata ai grandi valori universali. “ Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere” ( Ernesto Che Guevara, medico)

1 Commento su "Io soggetto a rischio, l’incontro con il coronavirus e la sanità fragile."

  1. Bellissimo articolo scritto con precisione e soprattutto mettendo in risalto il lavoro svolto dai medici di famiglia. Anche io credo che la sanità sia stata negli anni passati ridotta di personale solo per interessi economici che dovevano far crescere il privato, e questi sono i risultati. Ma nonostante tutto c’e Una sanità pubblica che lavora e questo articolo la evidenzia benissimo. Ma soprattutto mi piace l’ultima frase che interpreta il pensiero di tante persone che vivono pensando che bisogna lottare per avere una vita migliore.

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