Mediterraneo, con la crisi il divario si riduce

L’ultimo rapporto sulle economie del mare nostrum, curato da Eugenia Ferragina dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Cnr di Napoli, evidenzia nelle sponde Sud e Sud Est un quadro in chiaroscuro: aumento del Pil ma scarso welfare, investimenti stranieri in calo ma aumento del traffico merci marittimo… Mentre la disoccupazione e le migrazioni sono problematiche trasversali al Bacino

L’undicesima edizione del ‘Rapporto sulle economie del Mediterraneo’, curata da Eugenia Ferragina dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Issm-Cnr) ed edita dal Mulino, analizza – a vent’anni dalla Conferenza di Barcellona – criticità, differenze e similitudini dei 25 stati appartenenti a una delle aree strategicamente più rilevanti del globo: dalle cause degli attuali flussi migratori all’instabilità politica e istituzionale delle sponde Sud e Sud Est; dalle fluttuazioni della disoccupazione all’erosione della ricchezza della classe media.

Il Rapporto 2015 conferma la disuguaglianza nella concentrazione della ricchezza tra la sponda settentrionale e quella nordafricana, mediorientale e balcanica, già emersa dalle precedenti edizioni, anche se rileva una “relativa convergenza tra le economie della riva Nord e quelle della riva Sud del Bacino, in parte attribuibile al rallentamento dei processi di crescita che gli stati europei hanno subito in conseguenza della crisi del 2008”, come spiega Ferragina. “Se si confrontano i dati relativi al Prodotto interno lordo pro capite in base ai dati aggiornati al 2013 – afferma Alessandro Romagnoli dell’Università di Bologna – risulta che il Pil pro-capite delle economie dell’area, in percentuale di quello italiano, si colloca per i Paesi mediterranei aderenti all’euro e Israele fra il 122 per cento della Francia e il 62 per cento del Portogallo e della Grecia, l’intervallo all’interno del quale si situano le economie balcanico anatoliche varia invece fra il 38 per cento della Croazia e il 10 per cento della Bosnia-Erzegovina, e su percentuali anche inferiori si attestano i Paesi arabi della riva Sud (Tunisia con il 13 per cento, Algeria con l’11 per cento, Giordania con il 10 per cento, Marocco con 9), ed Egitto, il cui Pil pro-capite è il 5 per cento di quello dell’Italia”.

La distanza economica tra Nord e Sud rimane quindi un fattore caratterizzante del Bacino nonostante le prestazioni positive di cui le economie sud-orientali della zona sono state protagoniste ancora di recente. “L’Egitto ha visto aumentare il reddito nazionale lordo pro-capite dai 2.510 dollari del 2010 ai 3.140 del 2013, il Marocco da 2.870 dollari a 3.020, la Tunisia da 4.160 dollari a 4.200”, ricorda Marco Zupi del Centro studi di politica internazionale (Cespi), e guardando i dati relativi alla povertà estrema tra le diverse aree del pianeta, “Nord Africa e Medio Oriente risultano in tutto il periodo considerato dagli obiettivi di sviluppo del millennio (cioè dal 1990 a oggi), la regione con la minor gravità dal problema, ma anche con meno miglioramenti”. La popolazione che vive con meno di 1,25 dollari al giorno (valori 2005) nella sponda meridionale del Mediterraneo è nel 2012 del 43%, mentre negli altri Paesi in via di sviluppo è del 62%. L’aumento del Pil nelle aree sud e sud-est del Bacino, però, “non è sufficiente a proteggere dal rischio di povertà e al contempo non esiste un sistema di welfare e di protezioni che rappresenti un’ancora di salvezza”.

Uno dei fenomeni che colpisce in modo trasversale tutta l’area è quello della disoccupazione. “Certamente l’area che risente maggiormente del problema è quella balcanica. La fascia che raggruppa invece il maggior numero di Paesi è quella in cui il tasso è compreso tra il 13,3 per cento (Tunisia) e il 9,2 per cento (Marocco). Dentro tale fascia troviamo Paesi diversi tra loro ma accomunati da una disoccupazione simile: Egitto, Giordania, Italia, Francia, Slovenia, Turchia, Algeria”, conclude Zupi. Ad aggravare il divario è invece il minor afflusso degli investimenti diretti esteri (Ide) nelle aree politicamente instabili. “I Paesi con le perdite più serie – nota Anna Ferragina dell’Università di Salerno – sia in termini di stabilità politica che di flussi di Ide sono stati la Siria, la Libia, l’Egitto, l’Algeria e la Giordania. Gli Ide in Egitto, dopo il picco di 11,6 miliardi di dollari e il successivo collasso a 6,7 nel 2009, tre anni dopo non avevano ancora recuperato a causa della situazione politica critica e della scarsa sicurezza. In Israele, dopo la cifra record di 20 miliardi di dollari nel 2006, gli Ide sono caduti a meno di 8 miliardi nel 2009, recuperando solo in parte con 13 miliardi nel 2012”.

Le debolezze strutturali responsabili di questa scarsa attrattività sono il modello di specializzazione basato prevalentemente sulle risorse naturali e le dimensioni limitate dei mercati e degli scambi tra i Paesi della riva Sud. Un altro indice delle potenzialità dell’area è l’incremento dello scambio marittimo. “Nell’arco degli ultimi 20 anni il Mediterraneo ha riacquistato una nuova centralità nell’interscambio mondiale di merci, che si accompagna ad una crescita della quota di traffico merci che transita nei porti della riva Sud del Bacino”, dicono Alessandro Panaro e Luca Forte del Centro studi e ricerche per il Mezzogiorno (Srm). Per quanto riguarda la movimentazione container, però, “l’Italia è passata dal 46 per cento del totale del 2008 al 43 per cento del 2013, mentre Marocco, Egitto e i Paesi del Medio Oriente sono cresciuti, nello stesso periodo, dal 35 al 39 per cento”.

Per quanto riguarda le demografie e i flussi migratori, senz’altro il fenomeno di maggior rilevanza dell’area nel periodo recente, secondo il Rapporto nel quinquennio 2010-2015 il maggiore tasso immigratorio è quello del Libano (21 per mille), seguito da Giordania e Cipro (rispettivamente 11 e 6): valori notevolmente superiori a quelli registrati da Italia, Grecia, Spagna e Francia (al massimo del 3 per mille). “Considerata la situazione precedente al 2010, però, Italia, Spagna, Grecia e Francia contano una quota di immigrati di origine terzomondiale vicina alla soglia del 10 per cento, uniformandosi ai livelli che caratterizzano da decenni altri Paesi dell’Unione come Germania, Belgio e Olanda”, osserva Eugenia Ferragina. Il fenomeno nell’arco degli ultimi cinquant’anni, osservano Luigi di Comite e Stefania Girone dell’Università di Bari, assume “un’entità significativamente notevole solo in presenza di particolari episodi come calamità naturali, grandi crisi politiche ed eventi bellici ed un’entità più esigua allorché siano dovuti essenzialmente a motivi economici”. Non a caso, in Siria e Libia i tassi di emigrazione nel 2010-15 hanno raggiunto rispettivamente il 14 e l’8 per mille, mentre in precedenza i due Paesi erano moderatamente o per nulla interessati da emigrazione: quote paragonabili a quelle raggiunte da Bosnia Erzegovina, Croazia e Albania nel 1990-95, durante la guerra dei Balcani e la caduta dei regimi nell’area (rispettivamente 51, 4 e 23 per mille). Nei prossimi anni, l’incremento della popolazione straniera “potrebbe cominciare a interessare anche qualche Paese mediterraneo non europeo, come a esempio la Tunisia”.

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