Prima,
prima dell’accoglienza, della casa famiglia, vivevano nel piazzale di
un’altra stazione romana, l’Ostiense, vivevano in scatole di cartone,
che fosse freddo o caldo, notte o giorno. Vita da barboni, non certo
per scelta. Quindici, sedici, diciassette anni, a volte meno.
Meglio qui che nella devastata Kabul, m’ha detto un’amica afghana ed
io non vorrei crederle.
Sono tutti hazarà questi ragazzi poco più che bambini, hazarà, quella
che con i tagiki, i pasthun e gli uzbeki è tra le etnie più importanti
in Afghanistàn. Sì, sono afghani i vari Afthab ed io sono qui,
invitata dall’affidatario, un francese che li accoglie, insegna loro
l’italiano, si preoccupa di conoscerli uno ad uno, che fa
l’impossibile per donare calore e umanità, che vi riesce.
Siamo
qui, in questo scantinato annegato nell’odore di muffa, qui con gli
orfani delle nostre guerre, quelle di oggi, d’occidente, preventive, i
nuovi orfani, quelli rimasti, avanzati, se così non fosse, se non
fossero “avanzi” di guerra, non sarebbero qui, come tutti quegli
altri, quelli saltati in aria laggiù, nella loro terra, quando le
bombe a grappolo avevano lo stesso colore dei pacchi umanitari,
giallo, e i bambini correvano ad aprirli, per sfamarsi. Per sfamarsi
saltavano in aria, cambiavano mondo. Così, per errore. Errori della
civiltà.Afthab mi
ha chiesto perché questo mio libro parla della sua terra, per amore,
ho risposto di getto. Mi ha guardata, negli occhi indomiti severità,
dignità, l’intelligenza dei suoi avi, ha scrutato il mio sguardo a
scorgere il vero o il falso, ha sorriso, dopo, ha tradotto le mie
parole per chi, tra i suoi compagni non comprendesse la lingua
italiana, non ancora. Hanno sorriso tutti, anch’io.
Poi lo schermo del vecchio televisore nella stanza ammuffita s’è fatto
finestra, finestra aperta sulla loro terra, sui ricordi, sulla
nostalgia, aperta sulle montagne dell’Hindu Kush, sul desiderio celato
del ritorno, aperta sul film documento di Christophe de Ponfilly,
quello su Massoud, il Leone del Panjshir, aperta sull’Afghanistàn.
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Tutto s’è
riflesso nei loro occhi, sui volti, quei volti bambini, attenti, tutto
è scorso, ha creato un ponte, un invisibile ponte fantasia, un ponte
lungo due ore e migliaia di kilometri. Su quel ponte l’odore di muffa
s’è fatto ossigeno di montagna, di deserto, s’è rarefatto, mentre la
fredda luce al neon nella stanza, si faceva bagliore di fuoco, di
lanterna, fioca lampada lungo la via. Due ore di silenzio immerso
nello scorrere delle immagini, nelle voci lontane, registrate, ogni
tanto qualche sguardo d’intesa fra loro o scambiato con noi, come a
dire: ecco la mia terra, è bella. Due ore di silenzio per tutti,
comprese le assistenti sociali, l’amico francese, me. A noi si addice
la nostalgia, il ricordo, a noi si addice il desiderio del ritorno, a
noi, agli adulti, non si addice a loro, non a queste giovani vite, è
nota stonata, procura fastidio, dolore.
Ognuno di
loro ha tracciato la mappa del percorso, il proprio, quello della
fuga, quello verso le luci al neon, allo iodio, le stesse che
sbiancano i volti, lo arrossano, li deturpano, quelle della stazione
Termini, le prime, le luci d’occidente, violente ai loro occhi. Il
primo incontro.Il tracciato è stato chiesto loro dall’amico francese,
per saperne di più, l’hanno eseguito con gioia, ognuno ha segnato il
percorso verso occidente su piccole carte geografiche scaricate da
internet, fotocopie. Su questa strana via della seta al contrario,
Kabul, Ghazni, Herat, Mazar-e-Sharif, Kandahar e ancora e ancora città
afghane, paesi, villaggi, poi, dopo, Iran, Turchia, Grecia, Italia,
Roma stazione Termini.
Solo uno tra loro viene da Teheran, nato in Afghanistàn, con i
genitori la fuga in Iran al tempo dei sovietici, è Eskandar, anni
diciassette, anche lui, come Afthab, possiede con chiarezza la nostra
lingua pur se con qualche articolo in meno, qualche infinito in più,
ma sono soltanto trenta i suoi giorni italiani. Sto osservando il
grafico del suo percorso, la domanda giunge improvvisa: anche Teheran
con bombe?, dice, come prima di getto rispondo: no, no. Mi guarda come
ha fatto Afthab e, roteando l’indice destro a mò di, dopo, dice: poi?
Un vuoto alla bocca dello stomaco mi impedisce di rispondere.
continua...
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