A POZZUOLI, pescatori e contadini mi offrivano monete antiche trovate negli scavi e vasi di terra, con miscee che spacciano per antiche, ma che il più delle volte erano moderne, però preparate così studiosamente da ingannare anche i più pratici.
La visita alla SOLFATARA, anziché diminuire l’idea che mi ero formato di questa reliquia di vulcano, la accrebbe. È un piccolo piano di 893 piedi di lunghezza su 755 di larghezza fra quelle colline, tanto conosciute agli antichi col nome di Campi Flegrei; produce gran quantità di zolfo, e per certi fori lascia esalare un fumo caldo, carico di sale e di ammoniaca. È internamente scavato dal fuoco e la nostra guida per persuadercene lasciò cadere di botto una grossa pietra sul suolo, che produsse un rintronamento da persuaderci del vuoto che è dentro quel monte. Ho veduto anche gli ingegnosi apparecchi con cui il dottor Assalini mise a profitto quelle esalazioni di vapori solforosi adattando sopra di essi dei vasi di creta che, senza bisogno d’altro fuoco, bollono continuamente depurando lo zolfo e l’allume di rocca.
Sulla via della Solfatara scontravamo dei cappuccini che abitano ai piedi di essa, in un convento eretto sulla Villa Antoniana, e glorioso per la morte di s. Gennaro martire, vescovo di Benevento e patrono de’ napoletani. Quei poveri frati all’austerità della vita uniscono le molte molestie che le esalazioni solforose cagionano e rendono quel soggiorno insopportabile nell’ardore.
I laghi Lucrino ed Averno mi richiamarono molti versi d’Orazio, che parlano di essi e della loro pesca; ma mi inspirò più meraviglia il monte Nuovo, collina con tre miglia di periferia, che fu prodotta da una forza vulcanica nel breve periodo d’una notte. Gli risponde di fronte il monte Falerno, i cui vini facevano la prima figura sulle tavole romane, ma che oggi cedono ad assai altri.
Prima che in questi luoghi ridesse tanta amenità, vi erano orride foreste, entro le quali vivevano i feroci Cimmerii, che pretendevano predire il futuro. Omero li dipinge nascosti in grotte oscure, che secondo gli antichi, davano accesso all’inferno. Ora quelle foreste sono popolate di ciclamini, e l’uccello vi annida quasi sicuro dall’insidie de’ cacciatori.
Veder la grotta della Sibilla Cumana era fra i miei maggiori desiderii. Sulle rive del lago d’Averno per un usciuolo vestito d’edera e di muschio, e al lume d’una torchia, fui introdotto in un antro lungo 180 passi, e che, dicono una volta andasse infino a Baja. In quel silenzio universale, non rotto che dai nostri passi, l’animo rifuggiva di proseguire, ma una volta entrati bisognava andar avanti. E questo ribrezzo s’accrebbe quando, calati per una scaletta angusta, giungemmo al labbro di un’acqua sotterranea, che al chiaror funebre di quella fiaccola resinosa apparia più tetra, e dovemmo varcarla montando sul dorso della nostra guida, che in quel momento assumeva un aspetto stranamente sinistro e provavamo qualche disgusto d’esserci separati dalla bella natura per discendere in queste cupe caverne. Ed eccoci finalmente ad una cameretta quadrata e angusta, dove la Sibilla a quanto dicono, dava i responsi, e donde Virgilio fece partire il suo Enea pel viaggio all’inferno. Sotterranei ne ho veduti molti, ma nessuno mi colpi al pari di questo.
Gli svariatissimi monumenti che sono sulla spiaggia non lasciano però durare a lungo la stessa sensazione; ed anche qui allo squallore di questa grotta succede la bella vista dei templi di Venere, di Mercurio di Diana lucifera, e d’Apollo, altri testimoni del gusto e della grandezza romana.
Ma quale contrasto da questi edifizii ai sudatôrii di Nerone! Sulla strada fra le distrutte Cuma e Baia, scorgete a mezza costa d’un monte una rozza apertura; la vostra guida vi conduce lassù, ed eccovi innanzi sei camerotti melanconici e disabbelliti, con nicchie destinate ad accogliere i letti di quelli che vi vanno pei bagni. Da uno di questi camerotti si produce un corritoio dove niuno entra senza sciogliersi subito in sudori, tanto infuocata v’è l’aria per entro. Provai à resistere, ma pochi minuti secondi sarebbero bastati a togliermi il respiro se non ritrocedevo. Un giovincello, che ci serviva di custode, si trasse la camicia e in soli calzoni gettatosi in questa galleria infuocata, si portò sino al fondo, v’attinse un secchio d’acqua ne ritornò ansante, affannoso e tutto grondante, e ci volle qualche minuto prima che potesse riprendere la regolare respirazione. Allora fece il solito esperimento di gettare un uovo in quell’acqua, e poco dopo lo estrasse rappreso, come se deposto in caldaia bollente.
La smania che avevano i romani di edificare le loro ville sulle spiagge di BAIA faceva gridare Orazio contro que’ voluttuosi che invadevano co’ loro edifizi il mare, poco contenti della terra ferma. Ma questa smania era giustificata dalle singolari bellezze di questo lido, dalla sua fertilità, dalle sue pesche abbondanti, da tutto ciò che poteva lusingare il diletto. Giulio Cesare, Pisone, Domizia, Pompeo, Mario, Giulia Mammèa tutti avevano a Baia magnifiche ville. Ma insieme con questi ricchi ed ambiziosi passarono anche i loro edifizi, ed ora piange l’animo a vedere di Baia solo pochi ruderi inabitati che non hanno pur tanto da allettare la curiosità del viaggiatore
Tratto da: La patria ossia l’Italia percorsa e descritta. Letture giovenili
Di Ignazio Cantu – 1844
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