Reportage
Fino a Zante, tra gli spruzzi del mare, l’eco di Pessoa
e la musica dei Coldplay
di Marya di Pietro
“I viaggi sono ciò che siamo”. Sono queste le parole che ricordo
ogni volta che preparo il mio zaino con dentro la mia macchina
fotografica.
Spesso ad ogni partenza, le aspettative si moltiplicano tra le immagini di
quei luoghi, visti sulle riviste delle agenzie e i racconti di chi c’è già
stato, rendendo quella partenza una verità da svelare. In realtà quando
siamo di ritorno abbiamo dentro la scoperta di una sola verità, quella del
nostro sguardo, che ci rende palpabile l’immaginario di quelle riviste e i
luoghi di quei racconti e in quel momento ciò che siamo è diventato il
nostro viaggio.
Grecia: una nuova avventura per i miei occhi.
Cerco di ripulirli dalla tentazione del sensazionale, vedendo ogni cosa
avvolta nel loro naturale silenzio. La fretta di vedere non può far parte
di un viaggio, è la calma che porta subito a cercare inquadrature
semplici, vedute oblique, angoli smussati per andare oltre, con la sola
precisione delle mie emozioni.
Questo viaggio ha inizio alle 18 del 5 agosto dal porto di Bari; centinaia
di persone sono in fila alla biglietteria. Io me ne sto seduta mentre alle
mie orecchie suona Fix You dei Coldplay.
C’è un caldo torrido fuori, ma dentro l’aria è così fredda per via del
climatizzatore che siamo quasi tutti con felpe e sciarpette al collo.
Tutti ansiosi di partire,di salire sulla nave che ci porterà ad
Igoumenitsa, mentre in me irrefrenabile è la voglia di premere quel
pulsantino delle mie immagini.
L’arrivo è all’isola alle sette del mattino, al porto già si comprano
souvenir, chi fa colazione e chi legge un libro, io scesa da quella nave
imponente mi avvio verso una piccola barca a vela… Ed è lì che inizia
davvero questo viaggio.
Levkas, Parga, Paxos e Antipaxos, fino ad arrivare a Zante.
I giorni erano senza tempo, mi accorgevo che trascorreva solo da come
cambiava la luce.
Nessun orologio serviva a quantificare ciò che stavo vivendo, era solo un
susseguirsi di respiri e d’immagini nuove.
Il vento sceglieva la direzione e io dove porre il mio sguardo. Sentivo
l’odore della Grecia solo perché i miei pensieri sapevano d’essere li,ma
quel mare immenso, quei colori, quel calore mi estraevano da ogni segno
convenzionale.
La sera il cielo era talmente onnipotente che le stelle non erano
luccichii, ma meraviglie inaspettate che si mostravano agli occhi come
tante anime, sembrava potevi toccarle e capire il senso delle ore di studio
al liceo sui libri di geografia astronomica, era una perdizione leggera che
faceva udire l’universo. Se con un dito potevo indicare su un atlante dove
mi trovavo, avrei fatto un lungo cerchio sul globo: perché in mezzo al mare
ci si sente in mezzo al mondo.
In una settimana ho toccato terra due volte e, oltre al mal di terra di
qualche minuto, la prima sensazione è stata quella di essere catapultata
di nuovo a quelle piccole presenze, attraverso i segni della vita, i segni
che l’uomo lascia: le tracce.
Ora sapevo indicare il punto esatto sull’atlante: ero a Parga.
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Il porto si
presentava accogliente e pieno di colori. Iniziai a scoprire le stradine
strette che portavano ad altre ancora più piccole. Oltre a negozi di
souvenir che non vendevano la “Grecia” ma per lo più oggetti del mondo,
c’erano queste porte aperte delle case degli abitanti del posto, se non
prestavi attenzione, potevi trovarti al tavolo pronto per la cena nel retro
di un ristorante.
Forse è stato proprio questo che più ricordo della Grecia, di quella che
ho vissuto io certo, in quella parte di Grecia Ionica tra i vicoletti di
quelle isole: l’erranza di un luogo dove il paesaggio mi conferiva una
ricerca, che portava a girarmi su me stessa, come se fosse difficile
trovare tracce di un’esistenza; là dove la trovavo era così silenziosa e
semplice che la contemplavo senza fare domande.
Ecco il perché nelle mie immagini ci sono donne pensierose che hanno
“tanto tempo” trascorso sulle loro spalle, gli occhi e la fronte crucciata
di chi non smette di lavorare, come se un sorriso fosse cosa per pochi
eletti.
Solo la sera fuori ai ristoranti, che pullulavano di turisti, trovavo un
sorriso nell’uomo che portava al tavolo la mussaka, o nella giovane
ragazza greca che lavorava al bancone delle bibite.
Alla luce del sole tutto era diverso, quelle case, quei vicoli non
parlavano di Grecia se non solcavi una porta. Una vecchia bottega, un
vecchio fruttivendolo che si apre nel portone di casa, una baracca per
vendere spighe di grano… nessun tempio, nessuna colonna imponente, sembrava
che da qui gli dei non fossero passati, o che semplicemente a regnare qui
era la dea del silenzio. Ma questi possono essere enigmi dei miei occhi…
Enigmi che ognuno risolve col proprio cuore. Io li ho risolti così perché
forse la Grecia che io ho immaginato, quella che io ho saputo vedere, era
questa. Il sentimento d’appartenenza che io percepivo forse era distante
dalla terra: era più vicino al mare.
Forse stare in barca mi ricordava con un gesto naturale, di stare al mondo
molto più che dinanzi ad un souvenir da comprare e portare a casa.
Una vacanza dove non sei tu a scegliere la direzione, ma il vento, è forse
meno entusiasmante per chi preferisce armarsi di cartina e guide
illustrate, ma trovarsi in balia delle onde e saperle padroneggiare dà un
appetito allo sguardo e una sazietà alla propria ricerca, che nessun buon
locale o imitazione di ceramica greca può dare. Così, poi al ritorno, nello
zaino, ti riporti a casa ciò che sei.
Qualsiasi sia il posto che tu abbia visitato.
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