Ricercatori dell’Icb-Cnr e del dipartimento di matematica dell’Università di Portsmouth, confermano che la resistenza tipica del cancro alla prostata potrebbe essere causata dalle stesse terapie ormonali utilizzate per curarlo. I risultati della ricerca, ottenuti tramite simulazioni, se supportati dalla sperimentazione potrebbero dare indicazioni utili per migliorare l’efficacia dei trattamenti. Lo studio, pubblicato su Cancer Research, è stato segnalato su Nature Review Urology
L’elevato tasso di ricaduta che caratterizza il tumore alla prostata potrebbe essere attribuibile anche agli effetti delle terapie ormonali impiegate per contrastarlo. A sostenerlo, attraverso l’analisi di un modello matematico elaborato per simulare il decorso della malattia, è uno studio condotto da un team dell’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Icb-Cnr) di Napoli in collaborazione con il dipartimento di matematica dell’Università di Portsmouth, in Inghilterra, recentemente pubblicato su Cancer Research e segnalato nei ‘Research Highlights’ di Nature Review Urology. Se confermate dalla sperimentazione in vivo, queste informazioni consentirebbero di rimodulare le terapie in modo da renderle più efficaci.
“Nella pratica clinica la crescita del carcinoma prostatico si contrasta mediante terapie mirate a sopprimere la produzione degli ormoni maschili (androgeni) responsabili sia dello sviluppo dell’apparato genitale sia della progressione della malattia. Tuttavia, questo tipo di tumore spesso sviluppa una resistenza a questi trattamenti ormonali, ovviamente associata a una ripresa della malattia”, spiega Alessia Ligresti dell’Icb-Cnr. “In tale refrattarietà del tumore verso le cure, si riteneva già che un ruolo fondamentale fosse svolto dall’attività delle cellule neuroendocrine formatesi a partire da quelle tumorali. L’obiettivo della nostra ricerca, quindi, era quello di fare chiarezza sui meccanismi biologici alla base di questo fenomeno”. Secondo la ‘Prostate Cancer Foundation’, nonostante le terapie impiegate nei carcinomi prostatici diagnosticati precocemente mostrino un’elevata percentuale di successo, si osserva comunque un tasso di recidiva all’incirca del 20-30% nel quinquennio post-trattamento.
Un particolare protocollo di differenziamento neuroendocrino messo a punto dai ricercatori ha permesso di riprodurre in vitro quello che accade nei pazienti sottoposti a terapie ormonali. “Le cellule tumorali sottoposte a lungo a deprivazione androgenica, cioè all’abbassamento dei livelli di androgeno, si sono differenziate in cellule di tipo neuroendocrino apparentemente benigne, simulando quanto avviene nella fase di regressione della malattia”, prosegue Ligresti. “L’analisi Nmr (Risonanza magnetica nucleare) ha poi evidenziato che le cellule benigne, a differenza di quelle tumorali, producono un’abbondante quantità di un precursore dell’androgeno. Grazie allo sviluppo di un modello matematico è stato possibile predire il comportamento di queste cellule per tempi più lunghi (400 giorni) di quelli sperimentali e dimostrare che, quando i livelli di androgeno prodotti dalle cellule neuroendocrine sane raggiungono livelli critici, si osserva la ripresa delle cellule tumorali residue. In questo modo i ricercatori hanno potuto costatare come quello che inizialmente sembra essere un effetto positivo dei trattamenti ormonali, e cioè la trasformazione delle cellule malate in cellule sane, potrebbe in realtà promuovere la successiva ricomparsa del carcinoma nella forma resistente”.
I ricercatori intendono confermare tale ipotesi utilizzando modelli animali e campioni biologici di origine umana. “La convalida in vivo di questi risultati permetterebbe così di sviluppare modelli predittivi più complessi, in grado di rivelare i biomarcatori collegati al manifestarsi della resistenza del tumore prostatico, e contribuirebbero a migliorare l’efficacia delle cure”, conclude Ligresti.
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