La voce dall’interno degli Esport: intervista a Stefano Cozzi, che analizza l’integrazione del fenomeno Esportivo

Nel corso della campagna riguardante il massiccio ingresso dell’Esport nella scena sportiva mondiale che stiamo seguendo, abbiamo voluto ascoltare anche una voce dall’interno del movimento. È ormai impossibile ignorare un fenomeno riconosciuto dal Comitato Olimpico Internazionale e in grado di produrre eventi come un Mondiale nello stadio olimpico di Pechino (qui ne avevamo analizzato i dettagli).

Perciò, abbiamo chiesto l’intervento di Stefano Cozzi, conosciuto dai videogiocatori come Riot Zhydaris, che è manager di uno dei team di Riot Games (società sviluppatrice di League of Legends, uno dei videogame capofila nell’Esport), a fare luce su questo fenomeno in questa intervista proposta di seguito.

Innanzitutto, una domanda personale: di cosa ti occupi all’interno della società Riot Games e da quanto tempo ci lavori?

Sono il manager del team di Riot Games a Dublino che si occupa di comunicazione con i giocatori, supporto e organizzazione di eventi online e offline, social media, PR, supporto agli influencer e iniziative come quella che coinvolge Riot Games e le università italiane, o Riot Games e la sportività in gioco

Dai primi mondiali in Svezia di League of Legends, in cui il confine tra i professionisti e gli amatori era molto meno marcato di ora, ce ne sono stati di cambiamenti. Pur lavorando in tal senso, avreste mai pensato di arrivare a riempire il fantastico stadio olimpico di Pechino per l’evento dei mondiali lo scorso anno? Quali sono state le emozioni a riguardo?

Nonostante non sia più una novità ormai, ogni volta è sempre un’emozione. L’anno in cui sono arrivato a Riot abbiamo riempito location fortemente legate al basket NBA, come il Madison Square Garden e lo Staples Center, e per un appassionato di NBA come me è stata decisamente un’esperienza molto forte. Ormai non dubitiamo più di poter riempire stadi olimpici o palazzetti dello sport, i biglietti solitamente vanno in sold-out in pochissimo tempo, chiaro segno che l’interesse degli spettatori è forte come non mai“.

Cosa ne pensi delle parole del presidente del CONI Malagò, che ha definito “una barzelletta” l’ipotesi degli Esport inclusi nel movimento olimpico? Rispecchiano la visione italiana del movimento o si tratta di un caso isolato?

Sono le parole che rappresentano quella grossa fetta di popolazione italiana che non conosce l’ambiente degli Esport, e che quindi, comprensibilmente, ne hanno una visione lontana dalla realtà. Non mi sento di biasimare Malagò o Fazio. Ogni hobby è sempre stupido agli occhi di chi non lo pratica, almeno inizialmente. Il lavoro di chi lavora nell’ambiente in Italia dovrebbe concentrarsi principalmente proprio su questo, ovvero sul cambiare la percezione del pubblico verso gli Esport, ma soprattutto verso i videogiochi in generale. È proprio per questo motivo che sono stato presente all’incontro allo IULM di Milano, e spero anche in altri eventi nel corso del 2018: per sensibilizzare chi di Esport e videogiochi non ci vive, e fargli capire che ormai includono figure professionali che possono costruire una carriera sui propri interessi e sulle proprie capacità.”

Quali sono (se ci sono) i valori che l’Esport può insegnare allo sport tradizionale?

Sicuramente l’Esport beneficerebbe di tutti quei valori che tante associazioni sportive si sono impegnate a promuovere nel corso degli anni. Così su due piedi mi vengono in mente le campagne “Kick racism out of football” della FIFA, “This is why we play” della NBA, “Play Fair” della FIFA, e via dicendo. L’Esport può insegnare un approccio metodico e scientifico agli sport tradizionali. È una cosa che si vede soprattutto nel baseball, dove le statistiche sono componenti molto importanti dietro alle decisioni prese da general manager e coach, e che trovano molte similitudini nell’approccio adottato da squadre di alto livello ai Worlds.

Ancora una domanda personale. Qual è il tuo rapporto con lo sport?

Se avessi la possibilità e il fisico per farlo, giocherei a basket e calcio ogni giorno. Quando vivevo in Italia, la partita di calcetto settimanale era un must. In generale, se avessi tempo libero sarei sicuramente un giocatore amatoriale di qualche squadra locale. Sono cresciuto giocando a basket semi-professionalmente, e purtroppo vivendo in una nazione dove il basket non è proprio lo sport più praticato, è difficile per me soddisfare la mia necessità di giocare.

Uno dei timori forse più diffusi, che comporta critiche al movimento, viene dal fatto che i videogiochi aumentano il rischio che i giovani si chiudano in un mondo virtuale, perdendo occasioni nella vita reale, in cui se fallisci non puoi iniziare una nuova partita ripartendo dall’inizio. Cosa ne pensi a riguardo?

Penso sia un’obiezione abbastanza limitativa. È un concetto applicabile a qualsiasi passione o carriera. Vuoi davvero diventare un programmatore? Guarda che nella vita reale se fallisci non puoi modificare il codice sorgente. Vuoi diventare un giocatore di calcio? Guarda che nella vita reale se vieni espulso non puoi tornare in campo alla partita successiva. E via dicendo. Ogni passione va gestita con raziocinio. Dallo sport ai videogiochi. Qualsiasi attività umana, se intrapresa in maniera eccessiva e non bilanciata, porta ad avere problemi nella vita reale. I videogiochi non sono né esenti dalla cosa, né particolarmente vulnerabili.

Se le parole poi non dovessero bastare, Riot Games ha realizzato un video abbastanza esplicativo riguardante l’argomento appena trattato, a cui Cozzi ha lavorato:

Fonte: Canale YouTube ufficiale League of Legends

 

 

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