Un team internazionale guidato da scienziate e scienziati dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche ha letto nei composti chimici depositati nel ghiaccio l’andamento degli incendi di cinquemila anni. Il lavoro è pubblicato su Climate of the Past
Per la prima volta, grazie all’analisi di una carota di ghiaccio prelevata nella costa est della Groenlandia, a Renland, è stata ricostruita la storia degli incendi che hanno interessato le foreste islandesi negli ultimi 5mila anni. La scoperta è di un’équipe internazionale guidata dall’Università Ca’ Foscari Venezia e dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), che ha pubblicato i risultati sulla rivista Climate of the Past, aggiungendo un tassello fondamentale alla comprensione dei legami tra incendi, clima e azione dell’uomo.
Il ghiaccio porta infatti impressa l’impronta della storia climatica e ambientale del nostro pianeta e permette di risalire a informazioni di secoli e millenni addietro relative a temperature, eruzioni vulcaniche e anche incendi. “Analizzare i composti chimici presenti nelle carote di ghiaccio prelevate in aree polari aiuta a ricostruire aspetti climatici ed eventi atmosferici del passato”, conferma Andrea Spolaor, ricercatore del Cnr-Isp. “In questo caso parliamo di composti quali black carbon, ammonio e levoglucosano, emessi durante la combustione di biomasse. Misurando questi traccianti abbiamo scoperto che nell’alto Nord Atlantico, che comprende le coste Nord-Est, Sud-Est e Sud-Ovest della Groenlandia e l’Islanda, oltre 4.500 anni fa si sono verificati dei cali di incendi grazie a una diminuzione dell’insolazione estiva, con conseguente avanzare dei ghiacciai e diradarsi della vegetazione”.
I ricercatori hanno esaminato la carota di ghiaccio Recap (Renland ice cap) presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, l’Istituto di scienze polari del Cnr e il Centre for Ice and Climate di Copenaghen. “I fattori climatici che più influenzano gli incendi sono le temperature, l’insolazione estiva, le precipitazioni e l’umidità, accompagnate da quantità e tipo di vegetazione”, prosegue Delia Segato, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari Venezia. “Se la vegetazione è densa, infatti, nel caso d’innesco di un incendio, questo durerà più a lungo per maggiore disponibilità di combustibile da bruciare”.
Secondo lo studio un’altra ragione per la quale oltre 1.100 anni fa si è verificato nell’alto Nord Atlantico un calo degli incendi, oltre a quella climatica, è di origine antropica. “La diminuzione osservata in questo periodo è effetto della perdita di vegetazione nel territorio islandese”, precisano i ricercatori. “La colonizzazione vichinga dell’Islanda ha provocato uno dei primi disastri ambientali della storia e ancora oggi, dopo un millennio, le foreste islandesi non l’hanno totalmente recuperato. I vichinghi deforestarono in modo estensivo, con la perdita di più del 25% della vegetazione in meno di un secolo. I coloni, seguendo gli usi delle terre d’origine, tagliavano i boschi di betulle per ottenere legna e rimuovevano gli arbusti per aprire terreni da pascolo”.
L’impatto antropico nell’alto Nord Atlantico non si è certo arrestato in epoca storica. “Nei due secoli più recenti abbiamo rilevato che il segnale degli incendi si è intensificato a causa del cambiamento climatico e per le emissioni causate dall’uomo”, concludono i ricercatori. “I risultati dello studio mostrano che le regioni ad estreme latitudini costituiscono uno dei luoghi della Terra dove il cambiamento climatico sta avendo gli effetti più catastrofici. Solo a fine estate 2020 gli incendi nel Circolo Polare Artico hanno comportato l’emissione di 244 mega tonnellate di CO2, superando del 35% quelle del 2019. In queste zone è dunque essenziale migliorare la comprensione del clima e del regime degli incendi nel passato”.
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