I PRIGIONIERI DI BAIA

La cisterna oggi

La cisterna nel 1999

Era novembre 1982 quando entrai per la prima volta in quella cisterna lungo il Criptoportico. In origine raccoglieva le acque che arrivavano da Serino mediante l’acquedotto augusteo e le distribuiva agli ambienti sottostanti. È situata nel settore denominato Villa dell’ambulatio nel Parco archeologico di Baia ed è adibita a deposito di reperti archeologici. Allora aveva un cancello in legno all’ingresso e quel giorno era stato manomesso, per cui effettuai un controllo all’interno.

Durante la verifica, la mia attenzione cadde su alcuni segni alle pareti. Percorsi pochi passi e sul lato destro riconobbi una serie di tacche segnatempo scalfite nell’intonaco. Erano le classiche lineette verticali e parallele usate dai prigionieri per calcolare i giorni trascorsi. Man mano che avanzavo, oltre a nuove sequenze di tacche come le precedenti, ne scoprii altre che avevano delle X.

Le tacche segnatempo

Il primo pensiero che mi passò per la mente fu che quella cisterna romana fosse stata riutilizzata come prigione. Mi guardai attorno e in effetti l’ambiente era lineare, con una sola entrata da cui un carceriere avrebbe potuto facilmente controllare quello che avveniva al suo interno.

Dai tratti visibili sull’intonaco idraulico, le 8 aperture sotto gli archi in alto a destra dovevano essere notevolmente più piccole e trovandosi a circa 3 metri da terra non avrebbero consentito una facile fuga, senza considerare che dovevano essere protette da grate.

Ma chi erano i prigionieri e chi i carcerieri?

Galeone francese (?)

Più avanti, incise e disegnate, c’erano sagome di velieri eseguite con grande maestria. Si trovavano sempre sul lato destro, inferiormente alle aperture presenti sotto le volte. Uno di essi aveva raffigurato l’emblema del sole sul castello di poppa. Era forse un galeone francese?

Proseguendo ancora scoprii diverse figure umane, alcune di soldati dal cappello piumato e armati di spada, con abbigliamento tipico del 1500/1600.
Le condizioni erano molto precarie ma riuscivo a leggere comunque i tratti disegnati probabilmente con un carboncino. C’erano molti segni, alcuni molto labili, altri senza senso e altri ancora raffiguravano qualcosa a me incomprensibile. La scalfittura di un uccello era in condizioni tali da sembrare eseguito recentemente.

Più mi addentravo e più le sorprese aumentavano, infatti il ritrovamento più affascinante si trovava proprio alla fine della cisterna.

Le scritte

Sull’ultima arcata, in alto a destra, in circa 70/80 cm quadrati, erano presenti diverse scritte in stili, caratteri e culture diverse. Perché solo in quello spazio? Era il punto più illuminato dal sole e quindi veniva impiegato come lavagna oppure perché era il più distante dalla postazione del carceriere?

L’unica iscrizione che riuscii a leggere subito, perché in caratteri a me familiari, era in latino e datata anno “Domini 1574”.

Iscrizione latina

Riportava il passo del vangelo Giovanni 14:6 “Ego sum via et veritas et vita. Nemo venit ad Patrem nisi per me” ovvero “Io sono la via, la verità e la vita nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” e firmata “Johannes Articulus de Rotenburgensis”.

Non potevo fare a meno di pensare all’ignoto redattore. Chi sarà stato? Come e perché sarà finito in questo posto? Uscì fuori la mia passione per le vicende umane. Avrebbe mai immaginato costui che secoli dopo, la sua iscrizione – magari redatta in un momento di disperazione – sarebbe stata oggetto delle mie disquisizioni?

Dieci centimetri più sotto un’altra in caratteri che mi sembrarono gotici era vergata in tedesco antico. Alla sua destra un’altra iscrizione forse araba. Più su, altre incisioni in corsivo presumibilmente della stessa origine.

Nel 1999 chiesi ed ottenni l’autorizzazione per fotografare e documentare quanto avevo individuato, in questo modo, oltre ad una nuova e più approfondita perlustrazione, acquisii anche il materiale fotografico da analizzare con calma.

Nel 2002 inviai la foto dell’incisione in tedesco a Giuseppe Pagliarulo e Riccardo Venturi, due amici di newsgroup, che esaminarono con grande impegno. Accertarono che la grafia dell’iscrizione non era gotica bensì pre-gotica ovvero una fraktur e l’epoca presunta situata nella prima metà del XVI secolo, più o meno durante la discesa dei Lanzichenecchi. Lo stato di deterioramento e soprattutto il buco al centro della frase impedì l’esatta lettura per cui mi fornirono diverse esposizioni.

L’iscrizione pre-gotica

Letta come TAREN SINDT BISCHEN ALL[GE]MINDT dove [ ] rappresenta il buco, la traduzione sarebbe “Le lacrime sono comuni un po’ a tutti quanti”.

Oppure TAREN SINDT BISCHEN ALL[E W]ININDT cioè “Tutti versano qualche lacrima”.

Altrimenti DARENT SINDT BESEHEN ALL[E W]ININDT ovvero “Tutti guardano piangendo il viaggio di queste…”. Il Pagliarulo, filologo germanico, mi specificò addirittura che l’iscrizione era in dialetto alemanno orientale per cui l’autore doveva essere svizzero o comunque “alpino”.

In qualunque modo la si legga è certamente qualcosa di molto triste. Il lamento di un prigioniero? Forse lo sfogo di un povero Lanzichenecco gettato in quella cisterna utilizzata come prigione? La cosa non mi sorprende affatto se analizziamo gli eventi storici.

Nel 1527 Re Francesco I ordinò un potente esercito, in cui vi erano molti Svizzeri presi al soldo col danaro del Re d’Inghilterra, comandato da uno dei più valorosi ed esperti Generali di Francia: il Signore di Lautrec.

Nel 1528 Napoli subì il suo assedio e, credendo di assetare la città, demolì l’acquedotto della Bolla trasformando i terreni circostanti Poggioreale in paludi. L’azione del caldo e la decomposizione della vegetazione gli fu fatale poiché nel suo campo divampò la peste e persero la vita i due terzi dei Francesi oltre la propria. Sfortunatamente, il contagio entrò anche nella città e morirono 60.000 persone. In questa fase il nostro Lanzichenecco potrebbe essere stato catturato e imprigionato fuori Napoli a causa della pestilenza.

Il XVI fu un secolo molto tormentato, forse il peggiore per l’area flegrea.

L’angoscia principale oltre l’epidemia, furono le incursioni dei popoli musulmani (Arabi, Turchi, Mori, Berberi e Saraceni). Nel porto di Baia approdò con poche barche e pochi cavalieri Filippo di Villars XLIII, ultimo principe di Rodi, in fuga dal sultano turco Solimano che il 24 dicembre 1523 fece strage di cristiani nella sua isola.

Nel 1544 i corsari, con a capo Ariadeno Barbarossa, assalirono Procida e Ischia, saccheggiarono e massacrarono centinaia di persone e dopo aver catturato quattromila isolani si spinsero verso Pozzuoli. Il 25 giugno nel castello di Baia giunse da Napoli, con un nutrito esercito, Don Pietro di Toledo e con un astuto stratagemma spazzò via la maggior parte dei vascelli nemici costringendo alla fuga il Barbarossa. Fu solo una pausa giacché nel 1558 le armate ottomane comandate da Moustafà ripresero a saccheggiare le coste tra Sorrento e Procida.

Iscrizione berbera

E qui giungiamo alle iscrizioni arabe. Dopo lunghi anni di ricerca, sono riuscito a sapere che sono in lingua berbera, l’idioma dell’omonima popolazione originaria del Nord Africa tra il Sahara e la fascia di confine di Libia, Tunisia, Algeria e Marocco cioè l’area di provenienza dei corsari saraceni. È verosimile che alcuni di loro siano stati catturati e incarcerati in questa prigione e purtroppo non sono riuscito a trovare qualcuno in grado di decifrare le loro memorie.

Nel 1538 si scatenò anche la natura!

Tra la fine dell’estate e l’inizio d’autunno ci fu un forte terremoto: la terra di Pozzuoli si aprì nei pressi del castello di Tripergole, sul lago Lucrino, e dalla voragine uscì un ammasso di pietre che formarono un monte detto Montenuovo. Gli abitanti angosciati fuggirono dalle case cercando scampo a Napoli.

Pare che l’evento catastrofico fosse stato previsto addirittura dagli astrologi e fu oggetto di una relazione che il Simone Porzio inviò al viceré Pietro de Toledo: si sa che l’incontro di Marte con Saturno in Vergine nell’ultimo solstizio è solito generare esalazioni e terremoti. François Rabelais poco prima aveva scritto che Lucifero si sarebbe liberato dalle catene e sarebbe uscito dal profondo dell’inferno e coincidendo il luogo dell’eruzione con l’Averno, ovvero l’ingresso degli Inferi, la calamità fu ravvisata come una punizione divina.

Il cratere di Montenuovo oggi

Pestilenze, terremoti ed eruzioni provocarono la rivolta della popolazione. Per placare gli animi Don Pietro di Toledo decise d’introdurre il Tribunale dell’Inquisizione che servì solo a peggiorare la situazione. La confessione religiosa luterana già presente da tempo negli Stati della Germania, diffondendosi nell’Europa settentrionale, non tardò ad arrivare anche in Italia dove trovò molti accoliti. A Napoli il più famoso fu il frate cappuccino Berardo Ochino ma anche Giovanni Montalcini dell’ordine dei frati minori e il canonico Pietro Martire.

I Napoletani, venuti a conoscenza dei metodi di giudizio di quel Tribunale in Spagna contro chiunque fosse eretico o sospettato di poca credenza, si preoccuparono – non senza ragione – che si approfittasse per eliminare personaggi scomodi al Viceré. Tumulti scoppiarono ovunque e le rappresaglie furono tremende provocando carneficine sia da una parte che dall’altra.

Immagine di soldati

Gli eventi contribuirono ad alimentare ulteriormente paura e superstizione.

Un’invasione di locuste distrusse le campagne apportando una grave carestia. Nel giugno 1560 un forte terremoto abbatté molti palazzi di Pozzuoli e l’anno successivo quelli di Napoli. Il 25 novembre 1562 una pestilenza avvolse Napoli e dintorni e durò fino alla fine di gennaio dell’anno dopo sterminando 20.000 persone.

Si cercava il motivo di cotanta sciagura ed il Tribunale dell’Inquisizione glielo fornì dando la colpa agli eretici, ragion per cui la caccia al luterano riprese con vigore e nel 1564 Giovan Francesco d’Alois e Giovan Bernardo Gargano furono decapitati e bruciati in piazza Mercato.

Johannes Articulus de Rotenburgensis doveva essere anche lui un seguace di Martin Lutero, la sua firma rivela che Giovanni era membro di Rotenburg ovvero la cittadina tedesca della Franconia che successivamente diventò simbolo del protestantesimo luterano. Non sapremo mai per quale motivo abbia scalfito nell’intonaco la citazione “Ego sum via et veritas et vita. Nemo venit ad Patrem nisi per me”, se come accorato atto di preghiera o per affermare il proprio credo secondo cui non ci sarebbero altri intermediari col Padre se non suo Figlio.

Un luogo di dolore quindi, dove tante anime hanno trascorso i momenti peggiori della propria esistenza. Si fa fatica oggi ad immaginare che queste incantevoli località abbiano generato e subito tanta sofferenza. Dovremmo richiamarla alla memoria quando con autocommiserazione pensiamo che il presente non abbia nulla da offrire e che il passato sia stato migliore.

Biagio Sol

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